July 12, 2021

Categoria: Amore e dintorni

Tempo di lettura: 3 min.

Forza, non potete lamentarvi adesso. Siete riuscite a starmi accanto mentre infilavo Speed e Yes Man in una rubrica di film romantici, non potete mollarmi adesso che vi faccio la recensione di quella romanticona di Wonder Woman. Super eroina? Ah no. No no. Abbiamo di nuovo un problema linguistico. La donna meraviglia fa la super eroina nei fumetti, ma gli stagisti del reparto cinematografico della DC Comics (mi rifiuto di credere che ci siano persone assunte e pagate per quello che fanno! Mi rifiuto!) l’hanno trasformata in una ragazza ben vestita che prende tutti a lazo in faccia pretendendo amore. Hanno sicuramente pensato che con Gal Gadot di mezzo potevano fare quello che volevano.

Ecco a voi la recensione di quel bizzarro film che noi conosciamo come Wonder Woman 1984.

INIZIO TRAMA CON PICCOLISSIMI SPOILER

Diana ormai fa l’eroina a tempo pieno. Salva il popolo americano con la scioltezza del suo lazo dorato, figa come poche persone nel mondo, con una tuta i cui colori brillano in tutta la tipica stroboscopia degli anni in cui sono ambientate le seconde gesta cinematografiche di WW. Ma non riesce, nonostante il passare del tempo (dalla seconda guerra mondiale al 1984), a superare la morte del suo Steve. Niente da fare. Quarant’anni dalla morte e lei soffre come se fosse il primo giorno (del resto, tra i superpoteri potrebbe anche avere il super lutto). Come copertura, fa cose allo Smithsonian, dove lavora anche la bella ma imbruttita con un paio di occhiali Barbara Minerva, una timida topologa, geologa e cripto-zoologa (qui per un attimo mi son chiesta se sono lavori veri) notata a malapena dai suoi colleghi. Sempre per volere della sceneggiatura traballante, mica per altri demeriti, capiamoci. Cosa arriva allo Smithsonian? Una bizzarra pietra, ribattezzata “Pietra dei Sogni”, sulla cui base un’iscrizione latina promette di esaudire un desiderio. Molto bene. Entriamo nel vivo dell’azione da Pokemon, in cui uno dei cattivi, tal uomo d’affari Max Lord (un Pedro Pascal che credo vorrebbe l’elmo del mandaloriano per nascondersi) si intasca la pietra, esprime il desiderio di diventare la pietra per diventare ricchiss… ah no, aspettate, si capisce meglio l’assurdità della cosa se prendo spezzoni di trama da Wikipedia: “la pietra concede un desiderio all’utente, ma in cambio richiede un pedaggio (PEDAGGIO?!) a meno che non si rinunci al desiderio o si distrugga la pietra. (…) Dopo aver appreso dal presidente degli Stati Uniti di un sistema satellitare che trasmette segnali a livello globale, Max, i cui poteri stanno causando il deterioramento del suo corpo, intende esaudire globalmente i desideri per richiedere in cambio parte del vigore fisico di coloro che li esprimono, così da recuperare la propria salute (COSA COSA?!). (…) Indossando l’armatura della guerriera amazzone Asteria, Diana vola al quartier generale del satellite e combatte di nuovo con Barbara, che si è trasformata in una creatura simile a un ghepardo dopo aver desiderato diventare un super predatore”. Pre-da-to-re. Lei deve indossare l’armatura di Asteria, quella da gallina oro, perché probabilmente il solito trikini non andava bene. O, più probabilmente, si è resa conto di poter offendere qualcuno, con tutta questa bellezza, e allora ha cercato di imbruttirsi come poteva. Nel terzo probabilmente la vestono da bidone della spazzatura (che è già metallico). Anche Diana esprime un desiderio, il ritorno di Steve, che le provoca un danneggiamento ai poteri. Volete sapere come finisce? Io ve lo dico, tanto non ci credete: lei ferma il “cattivo” facendogli capire che non si sta bene a ottenere cose con la pietra, bisogna sudarle, bisogna puntare al genuino e non prendere scorciatoie. Lei rinuncia a Steve. Max si ferma, diligente. E pure tutto il mondo rinuncia ai desideri! Poi si dice che son tutti egoisti, bastavano due paroline messe bene dalla Wonder Diana! Dopotutto, lei poteva tenersi Steve e rinunciare ai poteri, non le servivano a una mazza, in fin dei conti. Magari qualcuno era malato e ha usato il desiderio per tentare di guarire, ma no, il film deve dare per scontato che hanno tutti desiderato cose imparentate col capitalismo…

FINE TRAMA CON PICCOLISSIMI SPOILER

Da quando abbiamo visto Stranger Things, non siamo stati più gli stessi. Ammettiamolo. Già quelli della nostra generazione (non fatemi dire quanti anni abbiamo. Sappiamolo senza ricordarcelo) sono segnati dagli infantili liberi e psichedelici anni ‘80 e dai telefilm amicali anni ‘90, dove non c’erano modelli di iPhone ma upgrade di cornetti Algida, e proprio non avevamo bisogno di ricordarci che una volta si stava e si faceva tutto meglio. C’erano pure i simpatici demogorgoni. Ecco, direi che Wonder Woman 1984 sembra stato fatto per comunicarci che, in fondo in fondo, non abbiamo proprio nulla da rimpiangere. Grazie per averci distrutto il ricordo di un’epoca.

Ma veniamo a noi. Di cosa narra il secondo capitolo di WW, attraverso la pietra pseudo filosofale e quei due antagonisti rubati a un film dei Power Rangers? Dei desideri. Di quello vorresti avere nella tua vita, ma, soprattutto, di cosa sei disposto a lasciar andare in cambio. La delicata arte del baratto. Mi viene da pensare che il primo tema di cui si parli sia l’inganno dell’artificio: se una cosa la vuoi, te la guadagni, se invece la ottieni barando (non barattando, eh), allora devi restituire qualcosa. Non si capisce a chi o a cosa la devi restituire, ma la restituisci. L’intro a Themyshira con una WW bambina che partecipa a una sorta di Olimpiadi delle amazzoni sembra confermare questa tesi: una piccola Diana gareggia con le adulte, riuscendo a tener loro testa grazie alla sua forza morale, ma, per una piccola e più che comprensibile distrazione (cade da cavallo sbattendo contro un ramo), si trova a dover recuperare l’animale in fuga usando una scorciatoia in mezzo alla natura e mancando accidentalmente un checkpoint. A casa mia questo si chiama buona valutazione del percorso, ottimo guizzo d’improvvisazione, lieve botta di culo e amore per gli animali (io un calcio in culo al cavallo stronzo gliel’avrei data), e invece Antiope la fa uscire dalla competizione con tanto di ramanzina: Diana, non si usano le scorciatoie! Signore e signori, dal mondo di Peppa Pig è tutto. Qui si capisce quanto il film sia desideroso di dire più che di mostrare e di attrarre il target di riferimento dei live action della Disney. I quali, con la Marvel, se magnano la concorrenza in un sol boccone.

Ma noi salviamo il film per un motivo: nonostante la bellezza straordinaria e i poteri sovrumani, la protagonista Diana, a un buon quarantino di anni di distanza dalla morte del suo amato Steve Travor, non riesce a vincere il dolore della perdita. Ecco, se noi eleggiamo il lutto a primo antagonista del film, forse ce la caviamo. Di fatto, la sua sofferenza diventa il motore della macchina narrativa, dove, invece dell’inciampona nei guai, abbiamo al volante una con due balle tante, che sa guidare molto bene, il cui unico desiderio non potrebbe essere che il ritorno della persona amata. Ora, non voglio spappolare il mood romantico dicendo che era pure l’unico uomo che avesse conosciuto, vivendo in un’isola ceppa di sole femmine…

Parliamo dunque di quanto Diana si isoli dal mondo che la circonda, sia questo il mondo del 1984 (quanta precisione per titolare una sceneggiatura che sembra stata fatta a brandelli dal un cane e poi rimessa a posto alla bell’e meglio. Da un gatto) o quello del 2021, risorgendo metaforicamente solo quando la pietra fa risorgere fisicamente Steve. Ma a quel punto, mentre i suoi poteri si affievoliscono a causa del baratto richiesto dalla pietra, lei si trova ancora una volta a diventare una martire per il bene di tutti gli altri: rinuncia a Steve (anche lui capisce e caldamente suggerisce questa soluzione, suicidandosi per la seconda volta su due film. Una media di tutto rispetto) e iscrive i due buoni nel firmamento dei supereroi maledetti: la vita privata viene negata a coloro che passano il tempo a salvare il mondo, quindi, forse, la cosa intelligente da desiderare era una vita “normale” e terrestre. Ma, ehi, da grandi poteri…

Come si affronta la fine di un amore? E con fine non intendo la morte della persona amata, come in questo caso, ma anche solo il suo allontanamento, una sua diversa scelta, il motivo a causa del quale ti si spezza il cuore e sei convinto che non esiste colla sufficientemente potente da rimetterlo insieme.

Primo spunto riciclabile: immagino ci si butti di testa nella carriera. Lei saetta come una palla matta per impedire che i cattivi, anche quelli di quartiere, abbiano la meglio. Potrebbe essere una soluzione. Lavoro e cene in solitudine, onorando l’unico uomo che abbia mai avuto accesso alla nostra mente. Migliorandosi? Non accontentandosi? Non avendo paura di essere sole? Pretendendo solo le stesse sensazioni, potenti e ingombranti, che sappiamo di poter provare quando amiamo qualcuno. Potrebbe essere. Meglio sole, che semplicemente accontentate.

Secondo spunto riciclabile al contrario: dopo 40 anni si comporta ancora come se nessuno al mondo la capisse o la vedesse veramente. Il che potrebbe essere vero, peccato che lei ci metta del suo: non coglie nessuno spunto amoroso o amicale e probabilmente non infila la testa nella sabbia solo perché c’ha tutti gli anni ’80 da salvare nei centri commerciali. Il mondo smette di girare in concomitanza della fine di un amore? No. Ci si dedica giustamente al lutto, ci si chiude nel proprio dolore, si pensa che nient’altro potrebbe riempire quel vuoto. E poi, piano piano, un incerto passo alla volta, ci si riaffaccia e si ritorna a guardare il blu del cielo infinito…

Giulia

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