February 17, 2020

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Ci sono delle mostre che ti colpiscono profondamente. Per la loro potenza, per il messaggio che racchiudono, perché l’artista è semplicemente magnifica, o per tutte e tre le cose.

AVREMO ANCHE GIORNI MIGLIORI – ZEHRA DOĞAN – OPERE DALLE CARCERI TURCHE è una di queste.

Si, perché non capita tutti i giorni di poter vedere opere concepite e realizzate in un carcere, con materiali di fortuna, dal sangue alla carta da pacchi. Ma andiamo con ordine.

Zehra Doğan è un’artista dissidente rilasciata il 24 febbraio 2019, rinchiusa per 2 anni, 9 mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver condiviso su Twitter qualcosa che non avrebbe dovuto condividere: un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco che mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno 2016 con le bandiere issate e trionfanti, e i blindati trasformati in scorpioni.

E se, mentre sei in carcere, personalità del calibro di Banksy e Ai Weiwei ti dedicano i loro pensieri, e se durante la tua prigionia continui a dipingere, collaborando con le compagne detenute nella costruzione di immagini, e nella realizzazione di un giornale di bordo che documenterà la vostra detenzione, vuol dire che sei un’artista che non solo fa paura, ma che potrà ispirare anche altri artisti e artiste a prendere una posizione.

All’ingresso della mostra ti accoglie lei, Zehra Doğan. O meglio, un filmato che ce la presenta mentre realizza l’opera preparata appositamente per Brescia: immagine di una donna color sangue su pagine di giornale sulle quali si intravede un nome, “Erdogan”. Nel video, Zehra, classe 1989, usa il colore come in una danza, immerge le mani, i capelli, usa tutto il suo corpo come fosse un pennello. Proseguendo, ci si trova di fronte a lavori fatti con macchie di caffè, con macchie di succo di cicoria, con macchie di tè. A partire dalle macchie l’artista delinea un immaginario simbolico, dominato dalla figura umana sintetizzata nell’esaltazione di alcune componenti specifiche come gli occhi, le mani e gli attributi della femminilità, anche se la figura femminile si trova in gabbia, e spesso le sue protagoniste hanno grandi occhi spaventati, colli lunghissimi, e zampe d’uccello.

L’artista in carcere usa ogni mezzo a sua disposizione: federe di cuscino, lembi di lunghe gonne, carte da lettere e da pacchi. E li dipinge con vernici trafugate, con elementi rubati dalla mensa (olio da cucina, lamponi, melograno) o dal suo stesso corpo. Come altre artiste prima di lei hanno fatto, per denunciare il ruolo della donna in una società che non le lasciava libere, anche lei usa il suo stesso sangue mestruale per esprimere il disagio di una persona imprigionata per il suo pensiero politico.

Zehra Doğan usa il corpo nella rappresentazione politica con scene di guerra in cui incorre la presenza femminile, per indicare forse che la prima delle battaglie da portare a termine sia quella contro il patriarcato. L’ultima sezione della mostra _di una mostra, a dire il vero, che avrebbe meritato una maggiore attenzione_ presenta alcuni lavori fatti all’uscita dal carcere, ma la fine è particolarmente commovente. Chiude l’esposizione infatti una camicia che è diventata un’opera d’arte, ma anche un memento: un capo d’abbigliamento firmato dalle compagne di prigionia che hanno condiviso con lei un momento dell’esistenza che, come Zehra Doğan stessa ha dichiarato, le è servito per continuare a studiare e imparare.

Francesca

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