May 2, 2022

Categoria: Consigli utili

Tempo di lettura: 3 min.

Sabato notte ho realizzato di essere madre, guardando la mia immagine riflessa negli occhi di tante altre madri, con gli occhi assonnati, i capelli arruffati e gli stessi pensieri. Certo, la retorica vuole che quando partorisci la prima volta, non nasce solo una nuova vita, ma anche una nuova madre. Ed è verissimo. Ma nasce anche una nonna, che soprattutto nella mia situazione è stata molto presente: quindi pur essendo mamma, mi sono sempre sentita anche molto figlia. Quando ho un problema o anche una gioia molto grande, la prima persona a cui mi rivolgo è la mia mamma. Credo che diventare adulti sia una continua oscillazione tra l’essere figlia e l’essere madre: recuperare la propria esperienza di figlia, mediarla con quello che si è visto fare dalla propria madre e reinterpretarlo attraverso la propria indole.

E se l’immagine canonica ed iconica delle madri è quella con un figlio piccolo tra le braccia, la vera sfida della madre arriva con l’adolescenza dei figli. La cura che viene riservata nella prima parte della vita dei propri figli assomiglia molto al gioco del “fare la mamma” che quasi tutte le bambine hanno fatto in tenera età: li nutri, li vesti, li curi quando hanno la febbre, li coccoli, ti preoccupi, ma hai sempre la sensazione di avere tutto sotto controllo. E’ come se sapessi sempre cosa fare e quando non sai cosa fare, c’è la tua mamma che te lo può suggerire, e nella mia esperienza ho usufruito anche dei saggi consigli della mia nonna. Poi arriva l’adolescenza. Il tuo spazio di azione viene nettamente ridimensionato: il cattivo umore del pargolo non si risolve con due coccole o una chiacchiera ristoratrice. E lì improvvisamente realizzi che sei genitore: puoi fare appello al tuo essere figlia e nipote, ma l’adolescenza è unica. E’ unico il senso di impotenza che si prova, perché capisci che non puoi più intervenire e proteggere come hai sempre fatto fino a quel momento. E’ unica perché, parafrasando Tolstoj, tutti gli adolescenti felici sono uguali, ma ogni adolescente infelice è infelice a modo suo.

E così quando dopo due anni di pandemia, il mio adolescente mi ha chiesto di poter andare in discoteca, la mia prima risposta è stata “No”. Un no che proteggeva me stessa, ma che era profondamente ingiusto. Il no è diventato un sì e fino a quando non è uscito dal cancello di casa, bello come il sole, con la camicia bianca del padre e il jeans delle grandi occasioni, ho cercato mille strategie nella mia testa per non farlo uscire. Poi il miracolo: una strana calma mi ha invaso. “Ormai è grande, ha diciassette anni: spero di aver seminato bene e qualche cazzata la deve pur fare!” L’accordo è che vada a prenderlo io alle 02:30, tanto ero certa di non dormire fino al suo rientro. Invece non è così: mi addormento e mi sveglio alle 2. Gli mando un sms: “Lore, alle 2:15 parto da casa”. Dopo un minuto: “Ok mamma, scrivimi che esco fuori”.

Arrivo davanti alla discoteca. Una fila di auto lunghissima: sono tutti genitori, soprattutto mamme, con la mia stessa faccia, un po’ assonnata e un po’ felice che il rientro a casa dei ragazzi sia finalmente arrivato e che il resto della notte sarà dedicata ad un sonno senza affanni. E lì in quella auto, in fila, mi sono sentita solo mamma. Con un figlio a pochi metri che ha una vita in parte autonoma da me e della quale non so quasi nulla. Ma sono così contenta di vederlo salire accanto a me: “Mamma, vuoi annusarmi l’alito?”… vecchia tradizione di famiglia che si tramanda da mamma in mamma.

Cindy

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