June 8, 2022

Categoria: Recensioni

Tempo di lettura: 3 min.

Il libro che recensisco oggi nasce dalla penna di un autore di cui mi sono artisticamente innamorata grazie all’osannato La verità sul caso Harry Quebert, nella cui trasposizione seriale troviamo un ingrigito, ma sempreverde (praticamente, una tavolozza), Patrick Dempsey. Mi piacciono ovviamente il libro, il magnetismo dell’intreccio e gli attori belli, ma il vero colpo di fulmine era stato per il personaggio di Marcus Goldman: uno scrittore famoso che deve calzare i panni di un detective per scagionare il suo mentore e amico Harry Quebert, accusato dell’omicidio di una ragazza scomparsa molti anni prima. Nei miei sogni da cassetto, calzavo i panni della scrittrice famosa che deve calzare i panni di una detective (il famoso vestiario a cipolla) per… non facciamola tragica. Per scoprire il colpevole del furto di un paio di Converse di una mia amica, toh. Ma il paio preferito.

Vi ho tediato con un sunto delle puntate precedenti perché l’ultimo libro di Joel Dicker, Il caso Alaska Sanders, segna il ritorno all’investigazione di Marcus Goldman e la ricomparsa del mentore e amico, nonché di una manciata di altri personaggi, più o meno collaterali, che gravitavano attorno al mondo dello scrittore ne La verità sul caso Harry Quebert e ne Il libro dei Baltimore.

TRAMA IRREQUIETA

Marcus Goldman, diciamocelo, è di un’irrequietezza che nemmeno io quando finisco le scorte di Aperol. Se ne va a zonzo per l’America cercando l’amore, Harry Quebert, una cena a scrocco dal suo amico detective Perry Gahalowood, fino al momento in cui il destino lo prende di nuovo per i capelli e lo costringe a investigare su un caso a cui aveva lavorato Perry undici anni prima: l’omicidio della giovane Alaska Sanders, i cui colpevoli vengono arrestati grazie a prove schiaccianti che li conducono, in ultima battuta, alla confessione. Uno dei due muore, mentre l’altro si trova a scontare un ergastolo in prigione. A causa di una strana richiesta d’aiuto, finita nelle mani sbagliate, il vecchio caso torna a tormentare i personaggi e a orchestrare la seconda avventura ufficiale del duo Goldman-Gahalowood.

FINE TRAMA IRREQUIETA

Come nel caso dei precedenti libri dello scrittore, anche in questo si procede per salti temporali e geografici distanti parecchi anni e miglia, per ricostruire una storia che fa un po’ come la carta igienica Tenderly del vecchio spot: rotola impazzita per la sua strada, fregandosene bellamente dei detective che cercano di rimetterla al suo posto, a portata di water. Avviso subito che, per questa recensione, la smetto con le metafore. Il salto in lungo e in largo giova alla suspance del lettore di thriller, che ama essere preso bonariamente in giro dal buon scrittore che tiranneggia informazioni e centellina prove, per lasciarlo a bocca aperta fino all’ultima pagina. Succede anche qui. Ma…

Ora, ammetto che questa parte si basa esclusivamente sul mio personalissimo gusto di lettrice di gialli e affini, ma non posso fare a meno di dichiararlo: la componente privata di Marcus Goldman, in questo caso, sembra inserita con l’ignobile intento di far innervosire il lettore, che vuole solo capire cosa sia successo alla povera Alaska, non quanto sia sentimentalmente handicappato il protagonista. Ti ritrovi a urlare: Marcus, ti levi dal cazzo caso, cortesemente? Capendo con sommo rammarico, calzando parimenti i panni di un investigatore, che si tratta di un’operazione commerciale volta a ricordare al pubblico che, se non si sono lette le precedenti opere, La verità sul caso Harry Quebert e Il libro dei Baltimore, a cui i riferimenti non sono chiari, ma fosforescenti, non si gusta appieno Il caso Alaska Sanders. Un calcio in culo al reparto marketing.

Non spendo troppe parole sui personaggi, perché, nonostante tutto, Dicker li tratteggia bene, donando loro motivazioni convincenti e legami solidi abbastanza da farti comprendere appieno l’epilogo della vicenda. Scopriamo attraverso gli occhi della sua creatura, Marcus, che Dicker deve rifuggire le grandi metropoli americane (Marcus abita a New York, ma si trova sempre in macchina, col dubbio che la corretta traduzione di “Range Rover” sia in realtà “Camper” o “Caravan”) per fotografare la vita semplice di piccole cittadine costiere, dove i ritmi sonnolenti scandiscono esistenze poco pretenziose. E che deve avere anche un problema con la sua fama, il Joel. L’autore infatti rende protagonista di ben 4 libri su 6 attivi uno scrittore (in 3, lo stesso Marcus) con evidenti problemi personali da imputare alla fama, colpevole di avergli rubato l’amore e persino la pace dello spirito. Joel, ma allora vai a fare il metalmeccanico, porca miseria. Oppure chiamami, io una manciatina di single le conosco, basta che vinci i tuoi demoni interiori prima del prossimo libro, che se me lo dipingi ancora come thriller e poi distruggi il ritmo tensivo a suon di seghe mentali del protagonista scrittore, ti prendo a mazzate col tuo libro da cinque chili.

“Certo che lo sapevamo. Del resto, è stata Donna Sanders, la madre di Alaska, a consegnarci questo articolo. Ma guardi la data: settembre 1998. Alaska vince un importante concorso di bellezza e subito dopo se ne va a Mount Pleasant. E’ strano, no? Mi rendo conto che all’epoca ci siamo posti la domanda in modo sbagliato. Non si trattava di sapere perché Alaska fosse venuta a Mount Pleasant, ma perché avesse lasciato Salem.”                                                                                                                                          Era un’ottima domanda.

Giulia

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