November 3, 2023

Categoria: Recensioni

Tempo di lettura: 3 min.

La mente umana funziona in modo assai bizzarro. La mia proprio male. Sono immersa fino al collo nel rosa dell’amore romance, e cosa vado a recensire? Un thriller. Colpa della Mari, che ha iniziato a sussurrarmi “ho un libro… un libro che ricorda Dieci Piccoli Indiani”. Maledetta. Che poi il suo sussurro era un vocale in WhatsApp e una fotografia della quarta di copertina, nel mezzo della quale e firmato Libération, si legge: “La reclusione sull’isola ricorda il senso di soffocamento che si prova leggendo Dieci piccoli indiani. Un romanzo fuori dagli schemi”. Boom.

Tale thriller si chiama Perché hai paura? e vi assicuro che basta guardare la copertina per rispondere a Jérôme Loubry, l’autore, un: “me lo chiedi davvero?! Hai approvato tu il lavoro dei grafici??”. Ma inizi a leggere quasi schiacciata dalle aspettative christiane (mh, della Christie) e pregando ardentemente che il signor Loubry sia riuscito nell’impresa di emulare un libro simile a Dieci piccoli indiani, per la salvezza della razza umana tutta, che dovrebbe conoscere Dieci piccoli indiani praticamente a memoria.

Ora, io non so cosa spaccino nella redazione del quotidiano Libération, ma credo che l’unico punto di collegamento tra questo libro e Dieci piccoli indiani sia che la protagonista principale, come i personaggi della Christie, si muova insieme a altre misteriose figure sul suolo di un’isola che, a un certo punto, perde ogni contatto con la terraferma. Misteriose nella misura in cui Sandrine non ne conosce il passato e non ne comprende il presente, finendo per fare affidamento solo su impressioni, analisi spiccia degli aneddoti esibiti e soprattutto l’inquietudine lasciata da una, diciamo, brutta aura. Ma cerchiamo di ricavare una trama: la giornalista Sandrine Vaudrier viene mandata su quest’isola a seguito della morte della nonna materna, che non ha mai incontrato, ma che le ha lasciato tutto quello di cui disponeva: gli effetti personali stipati in una casa un un’isola che ospitava una sorta di campo di vacanze per bambini, nel 1949, mentre il mondo cercava di cicatrizzare le ferite inferte dalla seconda guerra mondiale. Cosa trova, sull’isola? Lei, mistero e morte, noi voglia di sbattere la testa contro il tavolo cercando di poter leggere tutte le pagine contemporaneamente.

Eccolo, il vero ponte tra questo e Dieci piccoli indiani: la certezza di trovarsi di fronte a un libro complicato, arguto, mai banale, dove, da legge thriller, ogni cosa ti prende per mano per portarti nel buio di una strada senza uscita, dalla quale devi tornare indietro e ricominciare. Non posso assolutamente dirvi come avanza la trama, altrimenti infilerei un bastone nella ruota spettacolare della narrazione, che continua a condurvi fuori strada, sempre più lontano, dove riesci a incontrare così tanti personaggi da chiederti se e come si incastreranno le cose, e alla fine la sostanza che gira al quotidiano francese non ti frega tanto quanto quella nella dispensa del signor Loubry, uno scrittore che, nel bel mezzo di un 2023 in cui il lettore sgamato ha già letto o visto tutto (conosco gente blasé che guarda il mondo con occhio vitreo e fa spallucce cantilenando mah, le cose sono citofonate… persino quando dorme) estrae dal cilindro un coniglio cartaceo che ci porta all’applauso quasi automaticamente. Stupore, ecco la parola adatta. La stessa sensazione che si prova guardando un gioco di prestigio che non riesci a spiegare. Dov’è finito, il professore della prima pagina? E le boe di segnalazione che titolano i capitoli, cosa significano?

La guerra. E’ il secondo libro consecutivo che mi riporta in un passato in cui le persone (o personaggi, parliamo di un’epoca) sono segnate, sfregiate, dalla guerra. E le ossa rotte, pur rinsaldate, provocano zoppie indelebili, cicatrici che continueranno a pulsare, dirigendo il comportamento dei sopravvissuti. Si tratta di una giustificazione a certe cose? Non credo, solo di una perizia storica che non riporta passivamente e parzialmente solo gli effetti, ma toglie le cause dall’ombra della cronaca, mostrandocele in tutta la loro crudezza.

Abbiamo un narratore esterno che ci riporta le avventure di tutti i personaggi, ma Sandrine narra in prima persona, facendoci capire inequivocabilmente chi “comanda”. E finendo, per l’ennesima volta… il finale, quello definitivo, che ve lo dico a fare, è sorprendente.

Le lancette indicavano le 8.37, quando dovevano essere solo le 3 e mezzo del pomeriggio. Inoltre il bilanciere non faceva più alcun rumore. Non sapeva perché, ma quella pendola fossilizzata nel tempo la disturbò in modo del tutto irrazionale. Si stupì di come il notaio, che teneva in ordine il suo ufficio con la precisione di un orefice, tollerasse quell’anomalia. Ripensò a quanto le aveva detto il contadino il giorno prima: “Il tempo è un concetto variabile”.

Giulia

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