April 21, 2023

Categoria: Recensioni

Tempo di lettura: 3 min.

C’è del cibo nel titolo di un libro? Io lo compro e assaporo la cover, diciamo. Mi nutro fisicamente e spiritualmente. C’è del cibo nel titolo di un libro edito da WordsEdizioni? Mi ci faccio un santino. Scaccio i demoni, i fantasmi del passato, i venditori dei materassi che prendono la forma della tua spina dorsale, e poi lo disfo, che ho letto la versione digitale dal Kindle del telefono, e il telefono mi serve anche per fare altro. Ma quando non lo uso… santino. Ho visto venditori di materassi fumare come Al Pacino quando entra in Chiesa ne L’avvocato del diavolo… col vostro permesso, chiuderei l’intro imbarazzante e passerei alla recensione vera e propria.

Sono lieta di presentarvi la recensione del gustoso Il gioco dell’ostrica di Jay del Gelso, edito da (avete letto sopra, barabine?) e vincitore degli Watty’s 2018.

Il libro viene descritto come un retelling di Orgoglio e Pregiudizio della super Jane Austen e Molto rumore per nulla dell’immortale Shakespeare, per cui fatemi principiare dicendo, care donzelle, che bramo i libri (mi ripeto, l’ho scritto molte volte nelle recensioni precedenti) che mi rispediscono tosta tra i banchi di scuola, ove poter colmare lacune di qualsivoglia materia,  letteratura di un certo spessore compresa. In principio era un sottile indefinito panico: ci sono con Orgoglio e Pregiudizio, non ricordo se l’ho letto, ma Keira Knightley sta sempre in mezzo alle balle delle trasposizioni cinematografiche since ‘800 e Matthew Macfadyen in mezzo ai campi si lasciava guardare assai. Ma Molto rumore per nulla? Eh. Un bel rettangolino vuoto nell’album della letteratura. E allora cerco di rimediare iniziando a leggere voracemente Il gioco dell’ostrica.

Sono enormemente sollevata nello scoprire che anche quella testolina calda e fin troppo sveglia di Beatrice, la protagonista dalla lingua lunga e dal percorso di studi filologico, non riesce a capire le scoccate del protagonista maschile Benedict Deveraux (un inglese col cognome alla francese che devi leggere con la O finale tonda e accentata) fino a che, appunto, non si prende la briga di studiarsi quella particolare opera di Shakespeare per poter rispondere a tono. Lui, un architetto ribattezzato l’idiota, con una perenne espressione schifata incollata a un viso ingiustamente troppo affascinante, entra nelle giornate di Beatrice portato da un ex compagno di classe della sorella maggiore Nina, Carlo Bernardini, che riapre i battenti della Vecchia Cascina di Torrelunga d’Abasci.  L’ex compagno si tramuta presto in un nuovo amore, ostacolato dalla nobile madre di lui, e sopportato proprio dai due protagonisti Bea e Ben, che, nelle vesti di figure mitologiche mezze Cupido e mezzi chaperon, finiscono l’una tra le braccia dell’altro. Per divertimento, sia mai che la giovane universitaria idealista e caparbia finisca per interessarsi agli obsoleti meccanismi dell’amore. Per lei sono solo compromessi di bianco vestiti, per lui altre occasioni di sprezzo, ragion per cui i loro incontri fugaci sono (e devono restare) solo amabili parentesi fisiche in un mondo che gira al ritmo di marce nuziali di migliore amiche che si sposano con cugini mediocri.

Insomma, che nella famiglia di Bea si veda quella di Elisabeth Bennet e che la ricchezza e l’altisonante titolo di alcuni personaggi ricalchi il lavoro tutto ottocentesco di unire in matrimonio ranghi affini, invece che anime, e che i Beatrice e Benedetto siano i nomi di due personaggi della tragicommedia shakeasperiana che non riescono a smettere di battibeccare a causa di una precedente passione mal conclusa, l’abbiamo detto. Retelling. E poi il coro familiare di supposizioni e valutazioni, quasi sempre errate (ci sono traumi e l’autrice non ha paura di usarli. Sono chiavi per aprire la porta del cuore di Bea e mostrarci l’arredamento, facendoci riconoscere, in qualche soprammobile, il nostro stesso gusto per l’incertezza e la paura) tanto cari al genere della commedia romantica e che ci fanno capire che il lieto fine non è un capriccio, ma una necessità. Ma la scrittura vi soffia una ventata di aria fresca direttamente in faccia. Vi scompiglia i capelli, vi fa ridere, vi restituisce lo spessore della letteratura dei predecessori e ispiratori e la amalgama con la chick-littudine di un punto di vista soggettivo che sovverte e diverte. Un gioco di carte sacre e profane che fa coesistere due prose che sembrano lontani anni luce. E invece si allineano, e voi vi godete una meravigliosa eclissi.

Cieca. Sì. Sorda, pure. Se fosse stata anche muta sarebbe stato meglio. Aveva parlato troppo. Parlavano tutti troppo. E le parole, ormai lo aveva capito, rovinavano sempre ogni cosa. Quanto sarebbe valso per tutti un po’ di silenzio in più? Oro, avevano detto i saggi orientali. Araldo più perfetto della gioia, aveva scritto un altro poeta, quell’altro poeta. L’arco a tutto sesto della letteratura mondiale, ricordò. Altre stupide, mendaci e fuorvianti fandonie.

Giulia

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