February 17, 2023

Categoria: Recensioni

Tempo di lettura: 3 min.

Due settimane fa, per il mio ambarabacciccìcoccòesimo compleanno, mi hanno regalato tre libri thriller. Ero talmente contenta che mi sono cantata da sola Tanti auguri a te, col pronome sbagliato, ovviamente. E insomma, tra una roba e l’altra e l’altra e l’altra (periodo molto frenetico), butto un occhio veloce su quello di Donato Carrisi, mentre mi preparo per andare al lavoro. Due ore dopo mi hanno trovato nascosta in bagno a leggere, come Bastian de La storia infinita.

Vi recensisco quindi quel libro, La casa senza ricordi, consigliandovi che se e quando lo comprerete per leggerlo, iniziate a farlo quando non lavorate, la domenica, che se non avete un capo di mente aperta come il mio (il quale mi informa gentilmente che posso anche leggere alla scrivania, basta che lascio libero il bagno) venite licenziati in tronco.

Ho il dovere morale di dirvi adesso quello che io ho scoperto solo alla fine della lettura, La casa senza ricordi segue La casa delle voci e precede La casa delle luci. Ma dato che avevo scritto la recensione mentre leggevo la virtù sta nel mezzo, io vi recensisco il secondo, e comunque potete permettervi di leggerli separati o in ordine sparso, lo scrittore vi riassume magistralmente quello che vi serve di sapere senza intaccare i plot twist della narrazione del libro che state impugnando.

Bisogna dire una cosa del signor Carrisi, per cominciare: credo di aver letto quasi tutti i suoi libri, l’ultimo uscito mi era stato regalato al compleanno dell’anno scorso, e posso dire con assoluta certezza che, soprattutto nell’ultimo periodo, che io chiamerei il suo periodo rarefatto, ti descrive un numero di personaggi che si contano tranquillamente sulle dita di una mano e, comunque, COMUNQUE, ti lascia a bocca aperta sul finale. Che nervoso. Come fai a non capire il finale con cinque disgraziati che girano, di cui uno è la vittima e l’altro quello che investiga, e uno lo psicologo?? Eppure Donato ti fotte. Che sono frasi che magari non metterei sopra una maglietta, eppure è così.

Qui abbiamo un’auto appartenente a una madre con figlio a carico, trovata aperta e senza proprietari, un’anziana allevatrice di cavalli che trova il figlio, un bambino di nome Nico, e un ipnotista infantile divorziato, Pietro Gerber. Il giudice Anita Baldi lo chiama per una seduta con Nico, che non dice una parola da quando è stato ritrovato. E sono cinque. Ma, considerando che la madre non si trova, abbiamo il posto per un altro personaggio, giusto? Il peggiore di tutti. Dove sia e come arrivi, beh, non ve lo posso rivelare… continuare a fare la conta dei presenti e dirvi quale ruolo sono chiamati a occupare nella storia, sarebbe raddrizzare il dedalo narrativo tipico del thriller, i cui avvenimenti, invece, sono rannicchiati come gli intestini. Anche questa frase non la metterei su una maglietta, comunque… fondamentalmente, l’antagonista lancia un guanto di sfida all’ipnotista, incastrandolo in una caccia al tesoro di raro sadismo, la scoperta dei cui indizi si traduce per lui in un’impresa disperata e per noi lettori in un gesto semplice: mani a artiglio sul libro, fino alla fine.

Stavolta non mi soffermo sullo stile di scrittura dell’autore, il mio chiodo fisso, perché del miglior scrittore di thriller italiano l’unica valutazione possibile si riassume con: cominciate a leggere quando avete il giorno libero, gli amici a un rave party e la famiglia fuori dalla provincia, datemi retta, che questo thriller è uno e trino.

Dietro quella coltre opaca s’intravedeva un lungo caschetto di capelli biondi, con la frangia da cui spuntavano due pupille di un azzurro glaciale, distante. Aveva la pelle diafana, sottile come carta velina, che la sciava intuire le vene sottostanti. Sembrava fatto di cera. Indossava abiti invernali ma teneva le braccia strette in petto e tremava per il freddo. I suoi occhi riflettevano la luce della torcia.                                                                                                                                                                                                       C’era qualcosa di strano, poi lei capì.                                                                                                                                                                    Non sbatteva le palpebre.

Giulia

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