May 11, 2020

Categoria: Recensioni

immagine in evidenza nell'articolo smetto quando voglio

Tempo di lettura: 2 min.

E pensare che ci abbiamo messo almeno mezz’ora a capire di quale film dovessimo fare la recensione per sviluppare il tema della convinzione, della determinazione, della fiducia incrollabile nelle proprie doti in barba alle manovre non sempre concilianti della vita. E invece era talmente lampante che “Smetto quando voglio” fosse un’ode al coraggio dell’azione umana, no? Non si chiama “Smetto, ma che fatica” o “Smetto se lo vuole il buon Dio”, ma proprio “Smetto quando voglio”, quando lo stabilisco io, quando le mie azioni diventano promotrici del mio destino. Effettivamente anche “Il re scorpione” poteva fungere allo scopo, con the Rock che gira per tutto il film spiegando alla veggente (che ha una visione di lui che muore ammazzato) che “piantala, lo faccio io il mio destino”… sulle prime siamo titubanti. Ma c’ha ragione lui? E poi contrae il pettorale e uccide quello che nella visione uccideva lui, quindi a noi non resta altro che dire “Roccia, hai ragione!! Ci credo! Lo faccio io il mio destino!” e buttiamo l’oroscopo nel pattume.

Ma in questa sede vogliamo dedicarci a qualcosa di più intellettuale, come, appunto, la trilogia di film dedicati “alle menti più brillanti in circolazione” (il tormentone di Pietro Zinni, il neurobiologo a capo della banda) e alle loro avventure para universitarie. Ma proprio para. Adesso vi spiego.

TRAMA. Pietro, brillante ricercatore universitario, inventa un rivoluzionario algoritmo per la modellizzazione teorica di molecole organiche*, ma, a causa dell’inettitudine del professore che supervisiona il lavoro dei ricercatori e di oscuri rimpasti politici, non gli viene rinnovato l’assegno di ricerca e viene poco gentilmente scaricato dall’ateneo. Deve unirsi alla folta schiera di ex ricercatori universitari che campano di lavori precari, tra cui Alberto (chimico computazionale, sguattero in un ristorante cinese), Mattia e Giorgio (latinisti, benzinai notturni), Bartolomeo (economista, pokerista incallito), Arturo (archeologo, sottopagato) e Andrea (antropologo, sfasciacarrozze). Ma Pietro, incalzato da una fidanzata che pretende una lavastoviglie nuova (ah… le donne…) e poco incline a rassegnarsi ad essere uno delle tante vittime della macchina universitaria senza fondi, spinge i suoi amici a unire le forze per infilarsi, diciamo, in un business molto florido. Automotive? Naaa. Night club? Fuochino… il mercato delle smart drugs. Sintetizzano una molecola non ancora catalogata come stupefacente dal Ministero della salute, e quindi, non ancora illegale, e diventano ricchi sfondati. E Pietro compra la lavastoviglie.

Riciclano la loro cultura per diffondere molecole psicotrope ancora “legali”, perseguendo la ferrea convinzione di vendicarsi della farraginosa macchina dell’istruzione italiana? Convinti e consapevoli di dover partire dal punto A per arrivare al punto B, costi quel che costi? Ma no! Assolutamente no! Anzi, l’idea di sintetizzare una molecola sconosciuta rappresenta solo il primo giro di una ruota di bizzarri eventi che schiaccia i protagonisti e li rende, nel 97% dei casi, completamente inconsapevoli delle loro mosse, o meglio, dei loro tentativi per cavarsi d’impiccio una volta distrutta la quiete della malavita romana. Lo spettatore si scompiscia. Questi poveri e pittoreschi ex ricercatori, invece che essere baciati dalla dea fortuna (e qui rientriamo nella carreggiata della consapevolezza) sono rischiarati dal lume della ragione, per cui, ogni volta che vengono asfaltati dalla ruota degli eventi, si rialzano solamente grazie alla loro incredibile sagacia. Noi spettatori no, restiamo sdraiati per terra a ridere e non vediamo l’ora di passare al film successivo, che la ruota gira… gira… in alcuni momenti del film, devo confessarvi che ero addolorata di avere solo una chat di WhastApp con le mie ex compagne universitarie, invece di una banda con un roseo futuro nel settore del malaffare. Comunque… alla fine del primo film SPOILER ALERT i nostri vengono arrestati, ma, grazie all’aiuto fornito per arrestare il Murena, solo Pietro finisce in carcere (per salvare gli altri). La loro avventura nel campo delle smart drug termina, ma solo nelle vesti di produttori…

Nel secondo film, Smetto quando voglio – Masterclass, alla banda si aggiungono Giulio (medico anatomista, combattente in Thailandia), Lucio (ingegnere, venditore di armi a Lagos) e Vittorio (avvocato, a difesa dei criminali religiosi in Vaticano) e devono sgominare altre bande produttrici di smart drugs in cambio di una bella ripulita alla loro fedina penale. Ripartono quindi le psichedeliche avventure della nostra banda di eroi, che, dopo gli abituali e originali giri di ruota, si schianta contro il muro di una smart drug chiamata Sopox e impossibile da arrestare. Complice il guizzo di una buona cinematografia italiana, la fine del secondo film, la rivelazione di una nuova vittima universitaria dietro alla produzione di Sopox, conduce all’ultimo capitolo della trilogia, Smetto quando voglio – Ad honorem. Ah si, cercavamo la convinzione? Cerchiamo anche un po’ di pazienza, che, come vi dicevo, ai nostri eroi la determinazione nel perseguire un preciso scopo arriva dopo un arco narrativo spezzato in tre lungometraggi, diversamente da quelli di alcuni film che avevamo preso in considerazione. Ma l’operazione regge, no? Serve del tempo per smarcarsi dall’implacabile ruota di eventi della vita e diventare consapevoli di quello che si vuole fare, succede anche a noi persone reali. Io non ho mai sentito di nessuno che si sveglia la mattina con la consapevolezza della propria strada e la determinazione necessaria per arrivare alla meta, magari con l’oro in bocca, quello si, ma con la mappa e le provviste in saccoccia proprio no. Uno va per tentativi, cade, si lagna, abbandona, poi riprende, ricade e inizia a rialzarsi, poi si distrae, del resto, ci sono i saldi, ma poi capisce che “chi la dura la vince” e che non bisogna mollare mai. Anche se mai dire mai. Mi sono incartata.

Comunque, all’ultimo film i nostri eroi sono all’apice di consapevolezza, forza e determinazione, e arrivano alla meta. E noi ci sbudelliamo dalle risa, nonostante i temi trattati, i tagli ai fondi universitari, la mano politica, il mancato riconoscimento alla cultura e la quasi totale assenza di posti di lavoro siano tragicamente esistenti e tipicamente italiani. Cosa impariamo, oltre a piangere dal ridere e a ridere per non piangere? Sicuramente a non piangerci addosso e a sfruttare cultura e talento per sopravvivere, possibilmente, in modo legale. Ma se uno fa il neurobiologo e ha un chimico computazionale per migliore amico, scusate, che deve fare?!

*confesso senza remore che copiato la spiegazione dell’algoritmo a causa di un deficit personale in materia scientifica. Fui studiosa umanistica. Non mi devo giustificare, va bene?!

Giulia

Condividi l'articolo con i tuoi amici

Exclusive Content

Be Part Of Our Exclusive Community